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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Umberto Rebecchi, poeta dell’età floreale e cantore di molti personaggi della Piacenza popolare

Dimentichiamo tutto, o quasi. Ciò che crediamo rimanga a lungo, è invece solo un pappo disperso dal vento. Quante persone illustri il cui ricordo riteniamo perduri per sempre, sono svanite nel nulla che tutto travolge

Dimentichiamo tutto, o quasi; ciò che crediamo rimanga a lungo, è invece solo un pappo disperso dal vento. Quante persone illustri il cui ricordo riteniamo perduri per sempre, sono svanite nel nulla che tutto travolge. Non a caso, qualcuno, nella Ginestra, ci ricordava che “e l’uom d’eternità s’arroga il vanto”. Forse rimane maggiormente nella memoria collettiva ciò che si “erge con clangor di buccine”, con tutto ciò che è eclatante; seppur effimero anch’esso, ci colpisce di più e sovente ricordiamo più il male che il bene. Guai invece ad essere gentile, garbato, riservato, misurato: oggi più di ieri, sono prerogative che non vengono prese neppure in considerazione.Rebecchi Gran Bar 1911-2

Così proprio per contraltare, quasi per una non del tutto bonaria nemesi storica, credo sia opportuno rievocare anche persone semisconosciute, ma che hanno avuto il merito, grazie ai loro scritti, di lasciarci una testimonianza del quotidiano, del “generico” della nostra città. E’ il caso di Umberto Rebecchi che, oltre ad essere sensibile poeta, ci ha trasmesso, in diversi scritti su riviste e periodici locali, la gustosa e sapida documentazione di personaggi popolareschi che caratterizzarono la quotidianità piacentina, quando la sua vita era ancora tutta racchiusa nelle sue mura. A lui si devono diversi ritratti di tante “macchiette” che prima o poi torneremo a rivangare, uomini i cui comportamenti se, di primo acchito, muovono al sorriso, ad una più accurata riflessione, ci inducono a meditare su quanto fosse dura e spietata l’esistenza dei nostri bisnonni, ma con la propensione a godere anche del poco.

Rebecchi scomparve nel 1976, oltre la soglia dei 90 anni. Era un umile popolano, idealista e sognatore, amico di altri simili a lui che egli seppe eleggere e privilegiare per affinità di affetti, sentimenti, semplici e soavi passioni intellettuali.

“La poesia non dà pane” si diceva fin dai tempi di Orazio; tranne i “poeti laureati” di curia e di corte (ma quanto si lamentavano ugualmente Ariosto ed il Tasso…), sono ben pochi i poeti (ad eccezione di D’Annunzio foraggiato prima da Luigi Albertini e poi da Mussolini, ma pure lui in perenne balia di sequestri e pignoramenti…) che hanno vissuto di rendita su un patrimonio derivante dalle sacre Muse. Malgrado tutto vi sono ancora poeti che, pur coltivando una loro quasi inconfessata passione per le Muse, facendo magari gli straordinari nei giardini fioriti del Parnaso, lavorano negli uffici, nelle fabbriche, nelle botteghe, alimentandosi con il pane della sudata prosa quotidiana e si sentono fieri ed appagati di far parte della schiera dei seguaci di Calliope, Euterpe ed Erato. È stato il caso del poeta e scrittore Umberto Rebecchi che per decenni fu impiegato d’ordine, “colletto bianco” del locale Monte di credito su pegni della Cassa di risparmio. Superato il traguardo dei 90 fu testimone di avvenimenti politico- sociali e di trasformazioni di classe che oggi ritroviamo (ma ancora interpretabili…) sui libri di storia.

Via xx° Settembre anni '20-2

Cresciuto nei languori sognanti del sentimentalismo floreale, agli sgoccioli dorati della “Belle epoque”, Rebecchi era amico della poetessa bartulèi-2concittadina Nina Infante Ferraguti e scrisse oltre a numerose poesie di manierismo liberty, poemi e drammi sceneggiati, ma anche gustosi ritratti di interesse memorialistico minore.

Dalla sua penna scaturirono personaggi di “un Dio minore” che svanirono rapidamente nella memoria, ma che rappresentarono, ai suoi tempi, la scoppiettante, seppur a tratti drammatica, esistenza del “popolino”. Di alcuni come Baghèi o Tiritòla abbiamo già trattato; stavolta, grazie alla sua penna, rievochiamo Bartulèi Panaròn ma a questi, periodicamente, ne aggiungeremo altri. Anche se il nostro blog si prende una pausa estiva.

camilèi ferrarire-2Scriveva Rebecchi: “se concentro la mia memoria rivedo Bartulèi Panaròn (qui tratteggiato dall’impareggiabile matita di Roberto Badini) di professione spazzino comunale ben caratterizzato nello sfondo di un’epoca. Allora “i spasòn” erano pochi e girovagavano per le strade cittadine con un rudimentale carrettino, quasi sempre sgangherato e cigolante, trainato a mano con la ramazza (spasuròn) sulle spalle.

Bartulèi era un tipo magro, allampanato, il volto olivastro; somigliava ad un mulatto, gli occhi neri come il carbone, mustacchi da croato, ispidi come i peli di gatto spaventato; a vederlo così serio ed accigliato - scriveva Rebecchi - lo si sarebbe giudicato un soggetto burbero, scostante, misantropo, ma quando aveva bevuto qualche buona dose di “Trani” che allora costava due soldi allo scodellino, diventava socievole ed ilare ed emergeva una natura gioviale. Nei fumi dell’euforia bacchica diventava ciarliero, rallegrava da gran protagonista l’ambiente delle osterie dei vari rioni da lui frequentati. Era dunque - concludeva Rebecchi - un “bello spirito” ed amante del “bel canto” e spesso intonava a voce spiegata, romanze d’opera accompagnato da “Michettö”, violinista e chitarrista della Piacenza della “belle epoque” ormai al crepuscolo. La grande guerra mondiale si profilava con il suo tragico bagliore sull’orizzonte internazionale”.

Umberto Rebecchi, poeta dell’età floreale e cantore di molti personaggi della Piacenza popolare

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