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Piacenza, una storia per volta

Piacenza, una storia per volta

A cura di Giuseppe Romagnoli

Uomini e vicende del Po, storie di fatiche e di pesca

Rievochiamo altre figure che vissero il fiume quando fluiva terso e leggiadro, placido e solenne, insidioso ed irruente, tanto che se oggi, per un magico incanto, potessero ritornare in questi luoghi, stenterebbero a riconoscerlo, ad identificarne l’immagine incorrotta della sua vitalità lavorativa millenaria

Le ultime puntate del nostro blog le abbiamo riservate ai mulini del Po e sul fiume rimarremo, almeno virtualmente, in attesa del tanto sospirato “via libera” per tornare a passeggiare vicino alle sue sponde, una ripresa da attuarsi per gradi e quindi, rigorosamente, sempre “cum grano salis”.

Del Po ne abbiamo già ampiamente trattato: di piene disastrose, di pesche “miracolose” (allo storione), di fatiche inenarrabili di sabbiaioli, di caccia nelle boschine, di quando l’isolotto Maggi era “la Rimini” dei piacentini. Un intero mondo pulsante ed operoso svanito nelle nebbie che lo avvolgevano nel freddo autunno di una volta.

Ora, sempre grazie alle testimonianze rese tanti anni fa da anziani abitanti di Borghetto, S. Bartolomeo e Cantarana (qui torneremo per una simpatica disamina sulla Curtàssa), rievochiamo altre figure che vissero il fiume quando fluiva terso e leggiadro, placido e solenne, insidioso ed irruente, tanto che se oggi, per un magico incanto, potessero ritornare in questi luoghi, stenterebbero a riconoscerlo, ad identificarne l’immagine incorrotta della sua vitalità lavorativa millenaria.

L’epoca dello storione che risaliva a branchi la corrente del “gran padre Eridano” nelle stagioni di frega, appartiene ormai alla leggenda. Chissà se tra un po’ di anni, grazie alla rimonta di Isola Serafini e con acque tornate pulite, le generazioni future potranno ancora godere di questo spettacolo.

Tra gli anziani che riportarono testimonianze di questi mitici tempi, quasi quarant’anni fa (quando con Gaetano Pantaleoni scrissi i due volumi della Piacenza popolaresca), c’era Mario Borsotti decano dei fiumaroli piacentini di pesca e traghetto che abitava proprio vicino al Torrione; era discendente di un’antica schiatta familiare le cui epiche imprese padane svaporavano già allora nelle brume di un lontano passato.

Mario Pantaleoni (primo a sinistra) e Borsotti (al centro)-2

Analogo discorso vale per la progenie dei Bori (i sabbiaioli di cui abbiamo già trattato) e per quella di Mario Pantaleoni, figlio di quel mitico “Nìn” scomparso nella prima metà degli anni ’20 nella pienezza della maturità, rotto alle agre fatiche, ai disagi, agli stenti del “fiume dei fiumi”, come lo definì lo scrittore Zavattini. Un fiume amico, improbo, infido, avaro, saltuariamente munifico, quasi sempre sornione e capzioso, ostico, che non si è mai lasciato addomesticare.

Mario Pantaleoni, condotto dal padre sul Po all’età di 11 anni, nella prima gioventù fece il carrettiere con altri compagni, i Bonvini, comprò una barca ed iniziò il duro mestiere di sabbiaiolo. Quando Gaetano, fratello del Nìn, lasciò le attività fluviali ed andò a lavorare al Bottonificio Galletto divenendone caporeparto, il Nìn ed i compagni Angilèi Bori, Cecco Barbieri, Cecco “Barlòc” si unirono in sodalizio con l’impiego delle rispettive barche e ciò consentì loro di sbarcare il lunario. Mario “dal Nìn”, era attaccato al fiume come l’ostrica (di verghiana memoria) al proprio scoglio. Era uno degli ultimi sopravvissuti della vecchia piacentinità fluviale, della tribù insediata sul Po. Aveva ancora un rustico capanno ove erano custoditi attrezzi disusati, situato a pochi metri dalla riva, nel tratto compreso tra lo Scalo Pontieri ed il leggendario “Piatèi”. Nei suoi ricordi descriveva con crudo verismo rievocativo, senza sfumature retoriche di cui sembrava compiacersi un diffuso “vittimismo sociale”, le durissime fatiche connesse al mestiere del boscaiolo e del pescatore esercitato in quegli anni di diffuso pauperismo sociale.

Al lavoro settimanale svolto per la raccolta di legna nelle boscaglie allora selvatiche che infittivano ampie zone golenali, la pesca delle anguille, in cui il Nìn era abilissimo, succedeva il riposo settimanale e parte del pingue bottino ittico, veniva consumato nella trattoria Fantigrossi, poi Icardi, dove fu per moltissimi anni il ristorante Po, oppure nella cooperativa di Strà ‘lva (ovvero via Taverna) dove il Nìn e la festosa brigata degli amici, erano di casa. Uno dei tanti ricordi rimasti in lui indelebili, fu il viaggio inaugurale della nuova magana fatta costruire a Pieve Porto Morone dai fratelli Cobianchi, pagata al prezzo, per quei tempi oneroso, di 2 mila lire. Era il periodo in cui il fiume scorreva “in magra”: il viaggio di ritorno a Piacenza non fu agevole: si dovettero adottare accorgimenti cautelativi per non incocciare in barene o altri incagli sottostanti il pelo della corrente; fatto sta che quel viaggio durò ben dodici ore, parte delle quali remeggiando a nervi tesi nella notte stellata, senza luna.

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Prima della morte del Nìn, nell’aprile del 1925, Mario andò come garzone di muratore presso la ditta Bisotti, il cui titolare era denominato “Panèlo”. Fece anche il carrettiere al servizio di Nadàl Franchi con stallaggio in Borghetto, a pochi passi dal Torrione. La scomparsa del Nìn, figura d’antico stampo borghigiano, richiamò la partecipazione di gran folla, venuta a tributargli l’estremo saluto anche da altre borgate dove era conosciuto ed apprezzato per le schiette doti umane, la saggia, onesta, fierezza.

Fu appunto nel 1925 che Mario subentrò al genitore nella piccola impresa di lavori fluviali dove rimase fino alla leva militare. Durante la 2° guerra mondiale fu fatto prigioniero in Sardegna ed internato in un campo di concentramento istituito dagli inglesi. Tornò, dopo varie peripezie, alla sua Borghetto e qui ad attenderlo la sua diletta madre, la “Pepìna” figura di candita, trepida vegliarda, spentasi a 91 anni; la nonnina di Borghetto che vide Garibaldi di passaggio a Piacenza e Verdi tra i contadini che nei giorni di mercato affollavano Piazza Cavalli. Dopo il ritorno a Piacenza. Mario fu attratto dal richiamo ancestrale del Po, riprendendo a lavorare con i fratelli Sacchi al traghetto in zona “Piatèi”, dedicandosi alternativamente alla pesca, al lavoro di sabbiaiolo, ad altre fatiche che l’attività di fiumarolo comportava. Riallacciò frattanto l’amicizia fraterna con Ettore Fraschini, il popolare “Fraschèi”, l’oste-pescatore conosciuto nel 1927 di cui tratteremo nella prossima puntata.

Uomini e vicende del Po, storie di fatiche e di pesca

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