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Martedì, 30 Aprile 2024
Un po' di curiosità

Anche il latino ha dato colore al dialetto piacentino

Molti vocaboli sono confluiti nel dialetto di Piacenza, la lingua del popolo

Dal longobardo al latino, il passo è breve e anche questa volta il dialetto assorbe, trattiene e trasmette. Vocaboli in latino emiliano, sono un copiosissimo materiale dal quale possiamo ritrovare un palpito della vita medievale piacentina. Da un prezioso dizionario vaticano del 1937 abbiamo potuto leggere centinaia di termini latino emiliani, parole usate dai notai nei documenti ufficiali.

Anche il latino si era infarinato di vocaboli che poi sono rimasti nel parlare dialettale, quel latino scritto in carte di compravendita, di affari, ma che il popolo locale, che parlava un italiano medievalizzato, utilizzava poi a suo modo e trasferiva nel parlare comune di tutti i giorni.

Le parole virgolettate sono prese direttamente dal latino medievale tra XI e XIV secolo, con la loro traduzione, vocaboli in molti casi pronunciati tali e quali e confluiti nel dialetto di Piacenza, la lingua del popolo.

Scopriamo del “bagolone” che a quel tempo era chi andava a portare bestie al pascolo, oggi invece è chi appunto va a zonzo, senza far nulla, si dice un bagulòn.

Molto in voga anni fa per rinfrescarsi braccia e faccia il “bazinus” la piccola bacinella, il piacentino bazèi; il pantalone rimane la “braga” così come nel dialettale e stessa cosa per la “bursa” (borsa). Se secoli fa a Piacenza era normale chiamare la bottiglia “butia”, oggi lo è solo nel dialetto, così come per “caldera” la caldaia.

Chi ha una donna a servizio la definisce “camarera”, mentre il pane è ricoperto di “crusta”, ma ovviamente crosta vale per tante cose; le noci hanno una dura “gussa” (guscio), e per affilare, aguzzare i piacentini medievali dicevano “guzare”.

Giocare a trottola era “pirlare”, oggi si definisce uno che vaga senza meta, e la bilancia aveva già a quei tempi un fa detto “ponta” (punta), uguale è rimasto nel dialettale la “musca” (mosca), così come il letto del fiume Trebbia è pieno di “prede” (che era riferito sia a mattone che a pietra).

Un pezzo di qualcosa è la “scaia” (scaglia) e per lavarsi si usa il “savonus” (sapone in dialetto savò), ma la massima pulitura si ottiene con il ripulire molto a fondo cioè “sgurare”, stesso modo di dire dialettale ancor oggi per quella che in latino nella città del 1200 si diceva “turta” (torta) e l'amata focaccia “fogaza”.

Le cesoie o forbice è la piacentina “zisoria”, con buona stoffa si fa la “camisa” mentre lo scopaccione, dal medioevo ad oggi è “scopazzata”, la cintura è la “fubia” e la “roba” rimaneva la veste in genere, ed in effetti nella parlata piacentina molte cose si indicano in modo generico come “roba”.

Qualcosa che crea disagio, oppure una ferita o piaga, era la “magagna”, parola dialettale ancora in voga, così come in campagna era d’uso il “maracius”, la piacentina marazza, tagliente, appuntita ed a punta ricurva.

Le scalarole delle nostre vecchie case prendono forma e nome dalla “schalarola” medievale cioè la rastrelliera per le armi, e per le pulizie comuni usiamo uno “strazus” (straccio, in dialetto strazz).

Quando facciamo un carico di qualsiasi cosa diciamo d’aver fatto una bella “carga”, ma chi ha una pancia grande gli diciamo che ha una bella “butrigha” che indicava però una grande bottiglia. E concludiamo con il “sapellus” (piccola buca in dialetto sapell) che ci indica pure un piccolo rialzamento, un gradino cui prestare attenzione nel passaggio.

Anche il latino medievale ha trovato modo di rimanere nella parlata dialettale piacentina, e veramente il dialetto rimane uno di quei "beni immateriali" che andrebbe tutelato seriamente. Non c'è parola dialettale particolare che non abbia una radice antica, figlia dei secoli, una sorpresa che continua.

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