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L'inaugurazione

Una pietra d'inciampo per Francesco Daveri

In via Garibaldi è stata posizionata una pietra d'inciampo per il partigiano cattolico. Ecco chi era e perché la sua figura viene ricordata

Sabato 22 aprile, nella sala consiliare della Provincia di Piacenza, si è svolta la cerimonia per lo scoprimento della pietra d’inciampo in memoria di Francesco Daveri, martire della Resistenza piacentina deportato a Mauthausen dove, dopo settimane di lavoro forzato e percosse, si spense il 10 aprile 1945. Al civico 83 di via Garibaldi è stata inaugurata la nuova pietra d'inciampo (la seconda per Piacenza, dopo quella dedicata in via XX Settembre a Enrico Richetti) per ricordare la sua figura di partigiano cattolico protagonista della Resistenza piacentina. 

Una pietra d'inciampo per Francesco Daveri - DelPapa/IlPiacenza

CHI ERA FRANCESCO DAVERI

Un impegno civile fatto con il rosario sempre in tasca. Francesco Daveri nacque nel 1903 a Piacenza: frequentò il Collegio Alberoni e si laureò in Giurisprudenza a Pavia.  Unitosi in matrimonio con Margherita Castagna, iniziò a esercitare la professione di avvocato nel suo studio di via Pavone. In seguito, proprio la via sede della sua attività, venne rinominata via Daveri, per onorare la sua memoria. Il suo studio divenne una sorta di comitato promotore del Partito Popolare Italiano di don Sturzo. «Mio padre fu dal principio antifascista – è un ricordo della figlia Maria Pia (presente alla cerimonia con altri familiari) raccolto qualche tempo fa – e si rese protagonista di alcuni episodi particolari, come nel ’43, quando dal balcone del Municipio di Bettola buttò la foto di Mussolini». Proprio per questo gesto, venne incriminato e condannato a 3 anni di prigione dal Tribunale di Piacenza. «Scappò – continua il racconto la figlia – in Svizzera e iniziò a collaborare con i servizi segreti inglesi. Già da diversi mesi frequentava il Comitato di Liberazione Nazionale di Milano e aveva allacciato dei contatti con tanta gente”. Daveri avrebbe preferito fare la Resistenza nel Piacentino, dove era ricercato. “Era molto dispiaciuto di questo, voleva partecipare in modo più attivo, ma si trovava in Svizzera con altri piacentini come l’avvocato Donati e Granelli». Poi Daveri rientrò nuovamente nell’ottobre del ’44 a Milano per dare una mano al Cln: tutto questo sempre pensando alla sua Piacenza.  Riuscì addirittura a organizzare delle distribuzioni di viveri – lanciati da alcuni aerei - ai partigiani piacentini nascosti sulle montagne delle nostre vallate.

Ma dietro l’angolo c’è il tradimento di un conoscente. «Probabilmente proprio qualcuno del Cln – spiega Maria Pia – gli ha teso una trappola. Nel dicembre ’44 è andato a un appuntamento con un ingegnere che appoggiava il Comitato, ma appena entrato nel palazzo dell’uomo, la Gestapo l’ha arrestato. Insieme a lui vennero catturate altre 20 persone. Successivamente vennero liberati tutti, tranne mio padre». Daveri finisce così nel carcere di San Vittore per un mese: la famiglia non sa nulla del suo fermo. «Mia madre si sarebbe impegnata se l’avesse saputo, avrebbe chiesto aiuto alla curia piacentina, magari si sarebbe potuto fare uno scambio di prigionieri. In quel momento la mia famiglia era sfollata a Bobbio dal nonno. Mentre eravamo là, mio padre venne trasferito a Bolzano per 15 giorni». «Purtroppo lo caricarono sull’ultimo treno che partì per Mathausen (Austria) nel gennaio ’45. Da lì venne spostato a Gusen, distante due chilometri». …                                            

Da quel momento in poi le notizie sono poche ed affidate solamente ai ricordi di un milanese, compagno di prigionia, che alla fine della guerra ha cercato la famiglia dell’avvocato piacentino. «Mio padre è morto il 13 aprile 1945. L’uomo spiegò che venne ricoverato più volte e non ce la fece più a sostenere fisicamente quelle condizioni di vita. Morì nel campo e la sua salma venne buttata su un carretto, diretta al forno crematorio. Avevo 9 anni quando successe e lo venni a sapere solo in settembre. Però ho capito fino in fondo cosa ha passato solamente quando sono andata a visitare di persona quel campo di concentramento. Ci sono andata diverse volte, pure con gli studenti e con l’Anpi e l’Istituto storico della Resistenza: è rimasto solo il forno crematorio, tutto il resto non esiste più. Per primi andarono negli anni ’50 mia madre e un mio fratello».

Daveri era molto stimato. «Gli inglesi apprezzarono talmente tante mio padre che, dopo la sua morte, un maggiore venne fino a Bobbio a offrire dei soldi a mia madre come gesto di riconoscenza. Per loro era una persona di grande valore: purtroppo neanche loro riuscirono a salvarlo». La madre di Maria Pia rimase vedova a 39 anni con 6 figli da crescere e l’ultima – essendo nata nell’agosto del ’44 – non riuscì nemmeno a vederla una volta. «Per mio padre fu molto importante dedicarsi a questa lotta, tanto da decidersi di allontanarsi dalla famiglia, a cui teneva. Ha messo davanti a tutto questo ed è giusto riconoscergli questo valore. È uno di quelli che ha dato la vita per un’ideale».

Era anche un uomo di grande fede. «Quando fu accompagnato in stazione a Piacenza – ricorda Maria Pia - per partire con il treno in direzione Milano, fu accompagnato da un sacerdote. “Non hai una pistola in tasca se ti dovesse succedere qualcosa?” – chiese il prelato -. “No, ho questo in tasca”». E Francesco Daveri tirò fuori un rosario e lo strinse tra le mani.

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