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Venerdì, 26 Aprile 2024
Inchiesta logistica

«Reati-fine sempre programmati e unico strumento di lotta: ecco come sussiste l'associazione per delinquere»

Secondo la procura «tutta la motivazione del Riesame è fondata sul postulato indimostrato che un sindacato che persegue fini leciti con mezzi illeciti non può essere inquadrato nella fattispecie incriminatrice dell'associazione per delinquere»

Maxi indagine logistica e sindacalisti arrestati. Come detto, il sostituto procuratore Matteo Centini - titolare del fascicolo - ha presentato appello in Cassazione contro la decisione del tribunale della Libertà (LEGGI QUI), il quale aveva disposto l'annullamento della misura dei domiciliari circa l'associazione per delinquere per gli indagati, ma aveva anche contestualmente disposto l’obbligo di firma per gli altri reati-fine, riconoscendo in questo caso sussistenti le esigenze cautelari. Il ricorso presentato riguarda solo Mohamed Arafat, Carlo Pallavicini, Bruno Scagnelli e Aldo Milani, esponenti del Si Cobas. Secondo gli inquirenti infatti c'è la prova dell'esistenza dell'associazione e della partecipazione ad essa dei quattro sindacalisti appena citati.

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L'APPELLO IN CASSAZIONE:

La procura quindi, totalmente in disaccordo con la decisione dei giudici bolognesi, scrive nel ricorso in Cassazione: «...Tutta la motivazione è fondata sul postulato indimostrato che un sindacato che persegue fini leciti con mezzi illeciti non può essere inquadrato nella fattispecie incriminatrice di cui all’art. 416 (associazione per delinquere), che altro non è se una declinazione dell’adagio secondo cui “il fine giustifica i mezzi”». «Questa impostazione – scrive il sostituto procuratore Matteo Centini - è, da un lato, erronea e contraddetta dall’ordinamento mentre dall’altro lato è tema irrilevante nel caso di specie, nella misura in cui “a giudizio” non è il sindacato Si Cobas, né tantomeno tutti i suoi quadri o iscritti, ma solo quattro soggetti cui sono elevate specifiche contestazioni, peraltro esplicitate, con una chiarezza incontestabile, nell’imputazione».

«In sostanza, - prosegue - la prima domanda alla quale si è chiamati a rispondere è la seguente: se tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti a fin di bene, è integrata la fattispecie di associazione per delinquere? Se in ipotesi, costoro, stanchi delle sperequazioni economiche tra i cittadini, decidessero di associarsi per compiere rapine e furti allo scopo di redistribuire i proventi tra i non abbienti senza trattenere nulla per sé, avrebbero dato vita comunque ad una associazione “per delinquere”? A questa domanda il Collegio sembra rispondere di no (purché si tratti di un sindacato), fondando la propria decisione su un postulato indimostrato, ossia quello secondo il quale se una pluralità di individui costituisse una associazione allo scopo di tutelare i diritti dei lavoratori iscritti prevedendo programmaticamente di farlo commettendo reati ciò non costituirebbe associazione per delinquere in ragione degli scopi leciti e financo meritori perseguiti».

«Il capo di imputazione è sul punto chiarissimo. (...) Vi è - spiega - la descrizione del contesto in cui le loro condotte si sono perfezionate. Lo “guerra tra bande” (espressione utilizzata dal Tribunale di Piacenza sezione Lavoro a proposito della vertenza GLS, ma il concetto di “banda di Arafat” è utilizzato anche dal co-indagato Montanari) avviata dalle due sigle e la competizione tra le stesse per aumentare iscritti e quindi tessere e conciliazioni allo scopo di eliminare la sigla avversa dalla logistica di Piacenza rilevano, sotto il profilo probatorio e non certo sotto quello della tipicità, per dimostrare nell’ipotesi accusatoria che l’accordo a commettere più reati stretto dai quattro indagati non avesse a che fare con l’attività sindacale in senso stretto (né con il sindacato in questione) ma con un lotta di potere condotta con spregiudicatezza e cinismo dagli indagati strumentalizzando il loro ruolo nel sindacato. Tale contesto rileva sotto il profilo della prova del dolo non perché in sé la competizione tra associazioni che si muovono su un comune terreno di lotta sia di per sé illecita».

«La competizione però  - continua il ricorso - non può essere condotta attraverso la programmatica commissione di reati, persino contro terzi che nulla hanno a che vedere con tale scontro (lavoratori, imprese, agenti di polizia, ecc.), ma sul terreno del proselitismo lecito (del resto, lo stesso Collegio riconosce – come è pacifico in giurisprudenza – che il picchettaggio compiuto con metodi violenti è reato)». «Il rischio che il Tribunale  - prosegue - si è evidentemente proposto di scongiurare nell’annullare l’ordinanza impugnata è quello che ad un sindacato che agisca sistematicamente attraverso la commissione di delitti per raggiungere i propri scopi possa contestarsi il delitto di associazione per delinquere. Questo rischio, che procura e Gip avrebbero corso addentrandosi in un terreno scivoloso, deriverebbe dal fatto che secondo il Tribunale per un sindacato di base la commissione di delitti è naturale e per certi versi inevitabile».

«La debolezza del ragionamento del Tribunale - sostiene il ricorso - si annida anche nel passaggio in cui accenna al fatto che il sindacato possa “aver programmato genericamente forme di lotta che possano trascendere in singole fattispecie penali”: ebbene, laddove così fosse non si sarebbe di fronte ad un programma criminoso rilevante ai fini del delitto di associazione per delinquere, atteso che ad essere programmate sarebbero forme di lotta lecite e il loro trascendere sarebbe una eventualità imprevedibile (e comunque se prevista, non contemplata dolosamente). Ma se invece un sindacato fosse costituito per perseguire nobili scopi commettendo sistematicamente reati, costituirebbe una associazione criminale? Noi crediamo di sì». E ancora: «dal complesso dell’attività di intercettazione emerge inequivocabilmente che la realizzazione dei blocchi delle merci e i picchettaggi con barriera umana davanti agli stabilimenti non hanno mai rappresentato un eventuale degenerazione di uno sciopero programmato lecitamente, ma sempre e direttamente l’obiettivo perseguito dagli indagati».

«La contestazione associativa  - prosegue - è stata quindi limitata agli odierni indagati nella misura in cui solo in capo agli stessi si è acquisita la prova dell’accordo stretto per la commissione sistematica di tali delitti, realizzati sfruttando una struttura organizzativa preesistente e concepita a fini leciti (appunto quella sindacale di appartenenza), al punto che dai progressivi intercettati è emerso non solo che la commissione dei reati era l’unica e sola forma di lotta concepita dagli indagati, ma anche che gli stessi non si sono mai confrontati su singole rivendicazioni lavorative».

«Che la preoccupazione del Tribunale fosse di garantire che non si corresse il rischio di criminalizzare un sindacato che agisca programmando reati, si sublima nell’affermazione laddove il Collegio esclude la prova del dolo di partecipazione ad un’associazione criminale per l’”impossibilità di escludere che i partecipi, in specie nella costante ambivalenza e confusione dei risultati a cui miravano quelle forme di lotta e protesta sindacale che è trascesa nei singoli reati-fine contestati, non abbiano agito anche (in modo prevalente o meno) con la convinzione di tutelare l’interesse dei lavoratori iscritti alle due sigle sindacali”: cosa è questo se non l’adagio secondo cui “il fine giustifica i mezzi”, a tacere del fatto che vi è prova che la commissione dei reati-fine contestati non è frutto di una estemporanea ed imprevista degenerazione, ma l’esito programmato dell’azione degli indagati che parlano esplicitamente sempre di realizzare blocchi dei magazzini?».

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