rotate-mobile
La presentazione

"Mai più soli e senza affetto", il libro che raccoglie le testimonianze dei familiari delle vittime del Covid

Il volume di Antonella Lenti e pubblicato da Amop (Associazione malato oncologico piacentino) a cui andrà il ricavato della vendita, sarà presentato mercoledì 13 nell’Auditorium della Fondazione

"Mai più soli e senza affetto" è il libro-testimonianza curato da Antonella Lenti, pubblicato da Amop (Associazione malato oncologico piacentino) a cui andrà il ricavato della vendita del volume che sarà presentato mercoledì 13 dicembre alle ore 17 nell’Auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano.

All’incontro, coordinato dal direttore di Libertà Pietro Visconti, interverranno la curatrice del volume la presidente di Amop Romina Piergiorgi e il professor Luigi Cavanna che firma l’introduzione del libro. Cavanna in quella fase della pandemia è stato un protagonista di primo piano con l’avvio delle cure a domicilio che hanno permesso a tante persone di essere salvate a casa. Le 160 pagine del libro - attraverso testimonianze anonime di familiari i cui cari non sono sopravvissuti alla prima e alla seconda ondata del Covid - vogliono essere un contributo per non dimenticare quel periodo terribile che ha visto la nostra provincia pesantemente colpita dai lutti.

Si racconta il contesto in cui la pandemia ha dilagato in modo incontrollato tanto da travolgere tutti. Le 13 interviste, per lo più rilasciate da donne, sono state raccolte dalle psicologhe del reparto di Oncologia Michela Monfredo (sua la prefazione nelle prime pagine del libro) e Camilla Di Nunzio. All’interno un servizio fotografico di Andrea Pasquali realizzato quando tutto l’ospedale era diventato "area Covid".

Quelle storie sono state lo spunto per dare corpo ai capitoli del libro - suddiviso per temi - con l’obiettivo di proporlo come un racconto corale in cui ciascuno, in ogni capitolo, ritrova parte della propria storia e delle proprie sensazioni. L’obiettivo è far emergere quanto con la pandemia da Covid si siano intrecciate le vite di tante persone, malati, familiari, medici, infermieri…ma anche luoghi: case, ospedali, ambulanze. Un turbinìo inimmaginabile e spaventoso che ha determinato per molti mesi la sospensione della vita come l’avevamo conosciuta fino ad allora.

Il contesto: la prima e seconda ondata Covid

Si sta parlando della fase peggiore della pandemia quando ancora non esisteva il vaccino. Le testimonianze portano innumerevoli racconti di momenti drammatici dall’intensità sconosciuta. Un congiunto si sentiva male, veniva portato via dall’ambulanza e non si sarebbe più visto se non con qualche videochiamata, non sempre possibile. E poi in tanti casi arrivava la fine con quella "chiamata" così temuta.

«Suo padre, sua madre, sua sorella, si è aggrevata e non ce l’ha fatta». Una comunicazione talvolta tra le lacrime di un medico o di un’infermiera a cui spettava l’ingrato compito.

E alla famiglia? Restava solo l’immagine del congiunto soccorso dall’ambulanza e poi sparito nel nulla. Nella prima fase della pandemia erano sospesi anche i funerali. Condizione vissuta nel racconto delle storie protagoniste delle testimonianze come una violenza nella violenza. Scene che trasmettono, tangibili, toccanti, una disperazione senza confini quando, del paziente che non ce l’aveva fatta, venivano restituite le poche cose (telefono, orologio) in un sacchetto di plastica, mente la salma era stata composta nella bara senza che nessuno potesse toccarla o salutarla. Ferite che restano aperte per tante persone e che sono raccontate - tra singhiozzi e lacrime - in alcuni capitoli del libro. Non poter essere vicini alle persone amate, ai familiari, ai genitori nel momento di fine vita è un aspetto di cui si parla troppo poco, ma molto importante, troppo importante per non prendere coscienza che ci deve essere un limite anche nell’accettare le imposizioni, altrimenti si può davvero rischiare molto.

Figlie, genitori, mariti, mogli come fili persi nel vuoto, come catturati da un’entità aliena, che dal letto dell’ospedale non potevano avere conforto dai parenti. Una sofferenza per i malati che si sentivano abbandonati al loro destino e per i familiari che avrebbero voluto poter fare qualcosa per alleggerire la condizione dei cari ricoverati. Niente era possibile. Per il Covid non c’era cura, non c’erano vaccini, era ignota anche l’origine del male e tutto il mondo viveva una condizione di sofferenza che ha lasciato non pochi strascichi in ciascuno di noi.

Non dimenticare aiuta a non ripetere

Il filo conduttore che lega le singole testimonianze - che comunque rappresentano i capitoli di una stessa storia - è descritto nelle parole del titolo. Infatti tutte le persone che hanno raccontato lo tsunami che le ha travolte hanno espresso il medesimo desiderio: che non accada mai più che una malattia diventi un muro invalicabile che impedisce la vicinanza con i propri cari sofferenti. Stesse parole, stessi concetti sottolineati con forza da persone che non si conoscevano tra loro e che hanno raccontato le loro sensazioni, i loro sentimenti in tempi diversi accettando di mettersi a nudo con lo scopo di lanciare anche un appello perché tutto questo possa non ripetersi più.

Non accada mai più dunque. È l’auspicio. C’è anche da chiedersi quanto di quella vicenda stampata nella memoria di chi ha vissuto la tragedia in prima persona, sia rimasta collettivamente in ciascuno di noi a distanza di tre anni quando, oggi, sembra prevalga la tendenza a dimenticare, a non metabolizzare quel periodo correndo il rischio di non comprenderne la durezza, la crudeltà e, al contempo, senza predisporsi per costruire un percorso nuovo.

Se le storie familiari sono toccanti - nel seguire i vari aspetti del puzzle che il libro propone si alternano varie sensazioni verso quel vissuto - una parte del volume è dedicata anche agli operatori sanitari che allora furono festeggiati, applauditi, definiti gli angeli della corsia mentre stavano vivendo un periodo lungo - troppo lungo, e a posteriori colpevolmente non riconosciuto - di stress e frustrazione. Parlano di una sensazione di impotenza, del senso di colpa per non sentirsi troppe volte in grado di fare tutto quello che era necessario per i loro pazienti a causa delle regole ferree. E poi ci sono i drammi personali di chi aveva paura di portare a casa il virus e contaminare la propria famiglia; dei tempi lunghissimi per indossare i dispositivi di protezione; del timore di aver trascurato qualcosa… e in tanti sottolineano come dopo tante settimane in quelle condizioni, lo sguardo, il linguaggio degli occhi era diventata l’unica via per comunicare con i pazienti… e trasmettere loro anche un sorriso quando le loro condizioni miglioravano.

Insomma, uno spaccato di vita vera. Vale la pena non rimuoverlo.

In Evidenza

Potrebbe interessarti

"Mai più soli e senza affetto", il libro che raccoglie le testimonianze dei familiari delle vittime del Covid

IlPiacenza è in caricamento