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Martedì, 30 Aprile 2024
I grandi momenti del Tour

Lance Armstrong, la più grande truffa nella storia dello sport

La sua storia ha commosso e incoraggiato milioni di persone nel mondo: da sopravvissuto al cancro a superatleta in grado di dominare 7 Tour de France. Ma il ciclista texano aveva ingannato tutti

Piacenza si prepara al Tour de France riscoprendo le pagine più significative della grande storia della corsa gialla. La nuova puntata della rubrica è dedicata ad una delle più fosche storie umane dello sport mondiale: i sette anni di "dominio", dal 1999 al 2005, di Lance Armstrong. Le precedenti, invece, hanno visto al centro Marco PantaniVincenzo NibaliGino Bartali, il piacentino Giancarlo Perini e Fausto Coppi

A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina. La massima di Pio XI, erroneamente attribuita a Giulio Andreotti, l’ho capita per la prima volta quando il texano Lance Armstrong si è “impadronito” del Tour de France. Troppo esagerato l’atteggiamento del corridore americano, dal 1999 in poi, per sembrare “naturale”. L’uomo che era sopravvissuto al cancro diventò, di colpo, un uomo da grandi giri, quando prima era “soltanto” un cacciatore di classiche, in grado di portarsi a casa il Mondiale del 1993 con una fuga sotto la pioggia.

Una sola corsa all’anno preparata in ogni particolare, il Tour. Mai un raffreddore a pregiudicare una prestazione, un’incertezza, una crisi, un affannamento. In sette lunghi anni. Distacchi abissali per gli avversari, che non erano proprio degli sconosciuti. Montagne scalate con una frequenza di pedalata incessante. Cronometro dominate dal primo all’ultimo chilometro: lui sembrava in moto, gli altri zavorrati. Armstrong era dopato come nessuno al mondo. E la maggioranza degli appassionati italiani lo ha sempre pensato, condizionata anche dal tifo per Marco Pantani, purtroppo in parabola discendente.

Si rese persino protagonista, nel 2004, di una clamorosa rivalsa ai danni di un gregario come Filippo Simeoni. In una anonima tappa di pianura l’italiano, ciclista con nessuna velleità di classifica generale, provò la fuga con altri. L’americano in persona si staccò dal gruppone per andare a riprendere il drappello di fuggitivi, bloccando l’azione. Una ripicca, con tanto di gesto “della bocca chiusa” alla telecamera. Un’arroganza senza precedenti. Che bisogno c’era di dare una lezione del genere in mondovisione? L’italiano aveva testimoniato contro il medico di Armstrong, Michele Ferrari, ammettendo di essersi procurato tramite lui il doping necessario per correre forte.

Una volta Armstrong venne a Piacenza. Era il Giro d’Italia 2006, cronometro a squadre Piacenza-Cremona. Partenza di tappa dalla nostra città, come avverrà in questo Tour (ma non dal “salotto” di piazza Cavalli). Fu il Giro conquistato in modo tirannico da Ivan Basso, poi coinvolto due mesi dopo nell’Operación Puerto, che gli pregiudicò una fetta importante di carriera.

Armstrong era qui per trovare la sua squadra, la Discovery Channel (ex Us Postal). Voleva dare manforte al capitano di quella formazione, il “falco bergamasco” Paolo Savoldelli. Avevo sedici anni, me lo trovai davanti, a due metri di distanza dalle transenne sotto ai portici Ina, alla partenza della squadra, seduto sul sedile anteriore dell’ammiraglia. Voleva sorvegliare da dietro i corridori durante la crono, e aiutare in caso di foratura o problemi meccanici. Dal finestrino, alla partenza, salutò i disgraziati piacentini che lo acclamarono per quello che era, un “campione”.

La storia di Armstrong “vendeva” bene. Il sopravvissuto, l’americano che sconfigge il cancro e poco dopo vince la corsa più importante del mondo, che fa beneficenza, che è al fianco del presidente e suo conterraneo George Bush. L’uomo che ispira un Paese intero. Il Tour, infatti, lo ha protetto e coccolato. La Federazione Ciclistica internazionale pure. I suoi sponsor mettevano a tacere i problemi. Tutte le persone che avevano avuto a che fare con il suo “sistema” e si erano pentite, venivano isolate. Solo quando ormai la verità è venuta a galla, grazie all’impegno di giornalisti (uno su tutti, David Walsh) che sono andati fino in fondo, ha confessato le sue malefatte e il suo nome è stato cancellato dall’albo d’oro. 

Come mai era così amato e acclamato, anche di fronte ad una quasi evidenza delle sue prestazioni? Lo hanno spiegato, in un bel libro dedicato al “Texano agli occhi di ghiaccio”, Reed Albergotti e Vanessa O'Connell: «Ma la credulità della società di fronte all’evidenza sempre più lampante ha probabilmente qualcosa a che fare con il suo bisogno di un certo tipo di eroe. Lance è il prodotto inevitabile della nostra cultura e dell’intero mondo sportivo, tanto affamato di denaro da essere ormai fuori controllo. Avendo posto Lance su un piedistallo, il pubblico è stato riluttante a tirarlo giù, fino a quando, ovviamente, ci è stato costretto. E a quel punto gli si è rivoltato contro con una tale furia che tutti sono rimasti scioccati dalla rapidità con cui è stato deposto dal trono».

Colpisce molto l’atteggiamento di Armstrong, non ancora ravveduto di tutte le vite che ha rovinato lungo la sua carriera. Ha un podcast nel quale commenta il ciclismo come se avesse contribuito davvero a renderlo uno sport più bello e parlasse dalla cattedra. Proprio lui che fa la “ramanzina” al giovane di oggi che non ha avuto coraggio nel provare un allungo. Una bella faccia di “tolla”, come diremmo a Piacenza. Il diavolo che cavilla sulle strategie delle squadre, lui che era a capo di un team che ne ha combinate più di Bertoldo in Francia. Twitta pure sui ciclisti della nuova epoca, come se i suoi gesti tecnici e atletici fossero farina del suo sacco. E considera ancora “suoi” i Tour, tanto che non si vergogna di mostrare nelle fotografie della sua stanza di casa preferita le sette maglie gialle che ha fatto incorniciare alle pareti.

Mai rovinare una bella storia con la verità, direbbe qualcuno. Teorema che non mi ha mai affascinato, soprattutto nel mondo dello sport. Non si può parlare del Tour de France, che arriva a Piacenza, senza riflettere sulla sua pagina più buia. Quella scritta, con il sangue, da parte di Armstrong e di chi lo ha aiutato a rovinare il ciclismo.

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